“L’urlo” racconto horror al premio Arti Letterarie di Torino


Il 27 ottobre alla Galleria di Arte Moderna di Torino si è svolta la premiazione del Premio delle Arti Letterarie. Il racconto “L’urlo” ha ricevuto il seguente giudizio dalla giuria: ” Il racconto si evolve in una sequenza di immagini che, nel loro insieme, descrivono in modo magistrale l’evolversi della storia di una bellissima ragazzina, piena di entusiasmo e vitalità che viene prevaricata e deprivata della propria gioia di vivere. L’articolazione incalzante del racconto e il pathos che pervade l’intero racconto costituiscono elementi che denotano una spiccata capacità narrativa dell’autore.”

L’URLO

di Andrea Masotti

Il mio volto non potete vederlo. Come un veleno potrebbe instillarvi, goccia a goccia, il desiderio della fine. Temo di scorgere nello specchio i filamenti albuminosi di una sagoma che fu la mia. Sono tornata a raccontare ciò che le parole faticano. Niente della mia vita precedente imprime le proprie immagini laggiù, dove è cecità e delirio. Non emetto suoni. La mia gola, su cui è passato il globo arroventato dell’infinito, è ora un ingranaggio inceppato. Ho baciato le mani a Colui che ascolta. Ho avvertito le mie labbra, che furono la Sensualità nel giardino dei vivi, approssimarsi all’eone che, traversando il dopo, ritorna al principio nel cerchio del Tutto. Pensiero e Silenzio mi hanno risposto : – torna.
Passeggio tra i viali senza scansare le auto che mi attraversano. Amavo il mondo che mi è sempre stato estraneo, come una stella marina dei fondali ama le fronde dei pini baciate dal sole. Tutte le delizie mi sono precluse, come i dolori. Ma so. Ho un sentimento solo, ciò che ho sempre ricevuto: l’odio.
Presto incontrerò chi mi ha privato del girovagare tra i quartieri, delle corse sul metrò, delle boccate di gelo e di agrumi. Dell’amore. Chi dedicò le sue energie per fare di una bambina la più aggraziata e sensibile creatura per poi abusarne nel più torbido dei rapporti: una sola carne con il padre.
La vergogna ha riversato le speranze nel fiume dell’odio, il tormento ha seccato il biancospino in fiore. Fino al balcone, le braccia rivolte al cielo come ali, il volo verso il grigio dell’asfalto. Tra poco sarò da lui. Ricordo l’alito su di me, le gocce acide di sudore, la mano muscolosa che mi stringeva e l’altra inerme, avvolta in una fascia. Una volta nella lotta la benda si sciolse e ho scorto una macchia biancastra. Come mettere in atto la vendetta? Sono solo un fantasma, le mie braccia sono vuote apparenze. Era la mia seconda domanda a Colui che ascolta. L’Essere scaturito dal nulla come il vento del deserto si è avvicinato alle mie labbra, ho avuto sentore di cosa mi proponeva e l’ho concesso. Per un istante sono tornata la meravigliosa creatura la cui sola presenza poteva togliere il fiato. Ma ero solo odio e odio rimasi anche nell’amore.
Mi è stato permesso di tirare i fili del destino di un uomo che non voglio accettare come mio consanguineo: essere la piega triste del suo labbro, l’ombra minacciosa sul dormiveglia, il teschio che traspare dalla nuvola. Il verme nel piatto, la cloaca che risale nel bagno. Il pianto che gocciola sul sole estivo, il carcinoma che sbuca sotto il seno, il filo di sangue nello sputo. Le lancette dell’orologio che rallentano nell’attesa. Sarò l’eterna compagnia dell’amarezza. Fino a che l’asfalto non si sarà saziato di un altro corpo. Salgo i gradini della mia abitazione. Quante volte ho sognato l’alto soffitto affrescato di ghirlande e ho immaginato la mia fuga. Portavo nel corpo i lividi delle percosse. Le lacrime vibravano dei sussulti, inumidivano la camicetta lacerata. Il cancello era bloccato dai chiavistelli. Ricordavo il mondo esterno dall’infanzia, mia madre mi accompagnava ai giardini o al corso di danza. Captavo su di me gli occhi turbati di uomini maturi che si giravano ad ammirarmi. I giovani mi seguivano fischiettando.
Al ballo madri invidiose sussurravano dei miei capelli di miele, di occhi profondi come il verde oceano, dei balzi e degli stacchi del tutù che superavano per elasticità e armonia ogni concorrente. Corpi distratti mi sfioravano e mia madre era attenta a chi mi prometteva baci e carezze. Ma chi più ne soffriva era mio padre, il suo non era un calore affettuoso, bensì gelosia. Rimasi sola. Le amicizie si dileguarono e la mia famiglia si isolò. Mio padre, preso dal lavoro e da frequenti viaggi in terre lontane, portava con sé fotografie, e scoprii che non c’erano solo spiagge esotiche e velieri sul mare azzurro, ma anche capanne miserabili e corpi nudi di adolescenti.
La malattia di mia madre aggravò la situazione: dovevo accudirla e rincuorarla nei momenti di lucidità. Il volto di lui era cupo, incapace di aprirsi agli estranei, e la sua personalità fragile lo spingeva sempre più verso di me. Rimanemmo soli, si chiuse la porta della prigione e si aprì quella dello scandalo. Tra poco lo rivedrò, elegante, i capelli tinti, abbronzato. Avrà ancora il braccio fasciato, questo sì, ma coperto dalla giacca.
Ci tiene all’aspetto, a sembrare giovane. Attraverso il cancello, ecco la porta del suo studio, sarà il suo ultimo momento spensierato, poi lo accompagnerò giorno dopo giorno.
È sdraiato sul divano, dimagrito, i capelli radi, il volto reclinato sul cuscino.
Dall’angolo della bocca esce un filo di bava: forse è fatto di alcool. La pelle è butterata, una mano informe penzola sul lato. Mi avvicino. Nella stanza incombe un odore stantio, nessuno arieggia. Aggiro il letto e scorgo che del naso è rimasta una cavità informe, le labbra sono corde retratte, e l’altra mano, che portava bendata, è senza dita. Irriconoscibile. Ora comprendo il suo segreto: la macchia bianca che accuratamente celava sotto le fasce non erano i medicamenti spalmati sulla pelle, ma un primo sintomo. Nei suoi vagabondaggi ha contratto la lebbra che come una piovra macera e recide la carne. Respira, ascolto sillabe nel deliquio, fatica a emetterle dalle labbra amputate. Potessi bagnarle con una goccia d’acqua – o… no… o… no… – cosa intende? Tenta di respingere la morte che percepisce vicina o chiede perdono, lui che non ne ha mai concesso. Perdono alla moglie trascurata, perdono ai bambini usurpati. Perdono a me. Sono disarmata. Il più grande nemico non era mio padre ma l’odio che covavo e di fronte al corpo che geme nell’agonia è svanito. Non posso procedere ad altre vendette, l’acqua della piena fangosa è prossima all’estuario. Lontano, dove presto tornerò, troverò sagome umane e sognanti note di violino, i profumi del gelsomino e delle viole, e non sento più, mai più sarò soverchiata da quel terribile urlo: il mio.

Questa voce è stata pubblicata in premi letterari. Contrassegna il permalink.

Lascia un commento